C’ero una Volta
Tio Pepe
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Lo so, è l’incipit (storpiato) di tutte le favole. Io non ho mai scritto una favola, non ho più l’età per le favole, ma una favola – professionalmente parlando – l’ho vissuta. Giornalista professionista da quarant’anni: insomma, qualcosa avrò pur fatto, e sto andando a sfogliare le pagine per recuperarne le tracce. Lo faccio sfruttando il regalo di Marco De Polignol, che si è preso la briga e di certo il gusto di catalogare Guerin Sportivo e Calcio 2000, le “case” che hanno ospitato la mia prima e seconda vita (già, ormai sono alla terza età…). Ogni settimana andrò a pescare in quel magico hard disk un pezzo di me (non c’è bisogno di aggiungere altro, please…), con la speranza di presentarvi una persona (non mi piacciono i personaggi) come ho avuto la fortuna di conoscerla io: senza filtri, solo un taccuino, una penna e tanta curiosità. Dice che la gente non ha più voglia di leggere: meglio così, la maggioranza penserà che si tratti di un inutile culto della personalità e tirerà dritto senza soffermarsi. Per gli altri, che saranno pochi ma mi auguro “buoni”, ecco a voi C’ero una volta…
Il Derby di Milano (non lo storico locale che ha lanciato decine di artisti, ma quello tra Inter e Milan…) è una delle partite storicamente più importanti del calcio italiano. A prescindere dal risultato di ieri sera, per celebrarlo come si conviene utilizziamo un protagonista di tanti derby, e non solo: Beppe Bergomi.
La prima volta che lo incontrai, fu nel novembre dell’80, al Torneo di Montecarlo: giocava nella Juniores che si aggiudicò la Coppa, aveva 16 anni (17 li avrebbe compiuti un paio di mesi dopo) e le movenze del veterano. Poi, nella primavera dell’82, lo “zio” – ormai titolare in prima squadra a 18 anni – entrò nel mirino di Enzo Bearzot, che stava preparando la squadra da portare ai Mondiali in Spagna.
Il mio direttore dell’epoca, Italo Cucci, raccolse la confidenza del Ct azzurro e mi mandò a Settala, nell’hinterland milanese, per preparare una nuova puntata de “I giovani leoni si raccontano”. Così, nel testo che segue, è Beppe a presentarsi in prima persona ai lettori del Guerino e agli sportivi italiani in generale.
Un ragazzo molto posato, timido, un giovane adulto, insomma, che mi raccontò com’era iniziata la sua carriera calcistica. Ironia della sorte: il primo provino sostenuto fu per il Milan, che evidentemente godeva della sua simpatia, ma il Diavolo lo scartò e lui è rimasto legato indissolubilmente all’Inter per tutta la vita. Un uomo-derby in carne e ossa, insomma…
I GIOVANI LEONI SI RACCONTANO / GIUSEPPE BERGOMI
La mia avventura all’Inter?
Tutto cominciò quando il Milan mi scartò dopo la visita medica. Marini mi ha soprannominato “zio Pepp”.
A proposito: come si traduce in spagnolo?
Tio Pepe
di Giuseppe Bergomi
Mi chiamo Giuseppe, ma ormai per tutti sono “il Pepp”. Anzi, per essere più precisi sono “zio Pepp”. Perché zio? Fu Marini ad affibbiarmi questo nomignolo. Erano i primi tempi in cui frequentavo i titolari. Arriva Marini, mi squadra ben bene e poi dice: «E tu avresti solo 17 anni? Ma se sembri mio zio…».
Così diventai “lo zio”, per quell’aria tutta seria che mamma mi diede in dotazione 18 anni fa, quel 22 dicembre del 1963. E perché “Pepp”? Ma perché basta chiamarsi Giuseppe e giocare nell’Inter per scomodare il grande Meazza. Che poi lui facesse gol a grappoli e io invece cerchi di evitarli, poco importa.
SETTALA E L’INFANZIA
Questa però è cronaca, roba successa poco tempo fa. Cominciamo il racconto da Settala, il paesino dove fui concepito e dove tuttora risiedo. Settala si trova alle porte di Milano, ci arrivi facendo la strada che viene da Cremona. Non è un gran posto, nel senso che non ho mai sentito di gente che venisse a passare le ferie qui.
Però a Settala ci si vive bene. Oddio, non è che si faccia una gran vita, la discoteca è solo un sogno così come il cinema (a dire il vero il cinema ci sarebbe anche, ma il parroco non lo fa funzionare…), però la gente è schietta, generosa, gli amici veri. Qui, in altre parole, esiste ancora il sapore delle cose antiche, senza troppi fronzoli ma proprio per questo più genuine.
Ah, dimenticavo: a Settala è stato anche girato un film, “Qua la mano”, con Celentano, Montesano e Lilli Carati. Un momento storico per il paese, che ancora oggi ricorda quei giorni in quanto le case della piazza sono rimaste come le volle il regista del film, Pasquale Festa Campanile, ovvero dipinte con murales. In fondo non sono brutte, danno un senso di allegria.
La mia famiglia è di quelle semplici, tranquille, anche se da quando mio padre non c’è più si è venuto a creare un grosso vuoto. Mia madre Franca fa la casalinga, e forse si riposerebbe di più a lavorare in fabbrica o chissà dove: mio fratello Carlo è impiegato in banca, ha 23 anni e se la gente in gamba è destinata a fare carriera allora il suo avvenire è destinato; poi ci sono io, professione calciatore, un discreto stipendio, una carriera tutta da giocarmi.
Degli anni della mia infanzia non ricordo granché. No, non che sia sempre stato “lo zio”, solo che mi comportavo abbastanza normalmente. Ho letto per esempio che Mancini da piccolo fu “pizzicato” da un contadino mentre rubava la frutta: ecco, l’ho fatto anch’io, solo che non mi hanno mai preso…
L’unica cosa che ricordo dei primi anni è la grande passione per il calcio. Mi mettevi davanti una palla e io non capivo più niente dalla gioia. Sapete, io a scuola andavo dalle suore, eravamo nove ragazzi e tutto il resto dell’istituto portava la gonna. Cosa vai a raccontare a una di dieci anni? Che Rivera è un campione insuperabile? E sai quanto gliene importa.
Allora aspetti la campanella, torni a casa, pasto frugale e poi via di corsa verso l’oratorio, dove c’è un campo che ti aspetta. Attento però a non fare rumore perché c’è il parroco che non ‘ vuole. La mia prima squadra fu la Settalese. Giocavo con quelli più grandi di me, ma il fisico era già abbastanza impostato e non sfiguravo al loro confronto.
IL MILAN
Venne il giorno in cui credetti di avere raggiunto il mio obiettivo. Il Milan organizzò un provino e c’ero anch’io. Dopo neanche dieci minuti si avvicinò un tipo e mi fece: «Ormai è fatta, sei dei nostri».
E io a guardarlo come un ebete, a dirmi che stava scherzando. Fossi stato zitto… Sì, perché quello evidentemente scherzava, in quanto passarono tre mesi senza che il Milan desse segni di vita.
Poi andai a fare la visita medica e alla fine fui scartato. Avevo non so cosa nel sangue, non avrei mai potuto giocare a calcio. Tornai a Settala con le classiche pive nel sacco, e per un anno rimasi buono a curarmi.
La passione non accennava a diminuire e allora ripresi gli allenamenti con la Settalese, solo che pur essendo più bravo di tanti altri non potevo scendere in campo perché ero troppo giovane. Finalmente raggiunsi… l’età e diedi sfogo al mio amore per la palla: il sabato giocavo con i Giovanissimi e la domenica con gli Allievi. In un anno misi a segno — pur giocando in difesa — la bellezza di 25 gol.
BUSSI
Divenni un bambino prodigio, la voce si propagò e un bel giorno si presentò a Settala un signore, un certo Bussi. Veniva da Crema e faceva l’osservatore per l’Inter. In passato aveva portato alle giovanili nerazzurre gente come Manfrin e Martina (cito i primi che mi vengono in mente), e la sua parola era una garanzia.
Mi avvicinò e disse: «Ti ho seguito e ne ho parlato con quelli dell’Inter. Vieni a Milano che non ci sono problemi». Dopo la delusione provata con il Milan non mi feci strane idee, pensai che era giusto provare ma mai avrei dovuto sperare in miracoli. Era l’1 settembre del 1977: ragazzi a fare il provino ce n’erano tanti, ma mi sembrava che gli occhi dei dirigenti seguissero solo me.
Alla fine Bussi mi si avvicinò sorridendo: «Hai visto che non ci sono stati problemi? Vai a metterti d’accordo per gli allenamenti». Io, milanista fin dalla nascita, vengo tesserato dall’Inter. Beh, tanto si fa sempre in tempo a cambiare simpatie, no?
INTER!
Il sogno cominciava a diventare realtà. L’unica cosa che mi dava da pensare era la scuola: come potevo andare agli allenamenti e poi studiare? Dice il saggio che è meglio fare una cosa sola ma bene piuttosto che farne due male. Così sacrificai gli studi.
Dunque ero all’Inter. Partii con i Giovanissimi per passare dopo poco agli Allievi e quindi alla Primavera. I primi tempi gli allenatori avversari credevano fossi un fuori quota per via di quei baffoni che portavo a spasso per il campo. Poi ci fecero l’abitudine e nessuno mi scambiò più per un orco cattivo. In campo azzurro, nel frattempo, stavo facendo strada.
Dopo la Pre Juniores fui convocato per il Torneo di Montecarlo. Era il novembre del 1980 e in quella squadra giocavano un sacco di ragazzi in gamba. Qualche nome? Galderisi, Icardi, Evani, Bertoneri, Righetti, Fulvi, Di Marzio, tanto per nominare solo quelli che hanno debuttato in Serie A. Una bella formazione, affiatata e che poteva contare su veri calciatori. Vincemmo il Torneo battendo in finale la Francia: fu la mia prima grande vittoria.
Tornato a Milano, ripresi la preparazione con la Primavera, ma Bersellini cominciò a interessarsi: «Com’è quel Bergomi? Mi hanno detto che a Montecarlo è andato molto bene…». Cella, che era il mio allenatore, mi disse di questo interessamento proprio qualche giorno prima che mi venisse comunicato di andare ad Appiano a fare la preparazione con la prima squadra. E qui stavo per darmi la zappa sui piedi.
Appiano Gentile è a circa 70 chilometri da Settala, ma non era la distanza a impressionarmi, bensì il fatto che mi dovessi allenare da solo sotto la guida di Onesti. Il quale Onesti, da quel tecnico preparato che è, cominciò a farmi sgobbare moltissimo, tanto che dopo qualche tempo decisi che era meglio |’allenamento con la Primavera.
Insomma, feci finta di scordarmi gli appuntamenti ad Appiano fino a quando non venni redarguito ufficialmente. Bersellini non sapeva più che pesci prendere, si sarà certamente chiesto se aveva a che fare con una persona normale. Lui voleva lanciarmi e io disertavo gli allenamenti. Roba da matti…
Il 20 febbraio dell’anno scorso, infine, decise di mettermi alla prova: «Bergomi, preparati che fra due giorni giochi con il Como». A un tratto tutto mi sembrò diverso, e quel 22 febbraio 1981 mi trovai seduto in panchina pronto a spaccare il mondo. Dopo qualche minuto Oriali si fa male, richiama l’attenzione del mister e chiede il cambio. «Pancheri scaldati» fa Bersellini. Poi torna indietro con lo sguardo e mi dice: «Scaldati anche tu Bergomi».
Fu il debutto in Serie A, un momento difficile da dimenticare. Da quel giorno è andato tutto bene. Dopo l’esordio venne la Coppa dei Campioni contro il Real Madrid, quel gol sbagliato per un soffio che ci avrebbe consentito il colpaccio: e poi venne il “Bravo”, quando fui premiato come miglior giovane calciatore italiano impegnato nelle Coppe: e poi l’Under 21 di Vicini; e poi Lipsia, il ritorno in una città che a me ricordava il giorno in cui seppi della morte di mio padre. Pensa che strano: due anni fa a Lipsia finiva una parte della mia vita, questa volta cominciava un nuovo capitolo.
LA NAZIONALE
Ed eccoci arrivati ai giorni nostri. Uno apre l’uovo di Pasqua e cosa ci trova? La convocazione per la Nazionale. In quei giorni ero impegnato con l’Inter a preparare la semifinale di Coppa Italia, avevo letto da qualche parte che Bearzot era rimasto soddisfatto del mio comportamento in campionato e non aveva escluso il fatto di provarmi.
Ma chi se l’aspettava così presto? Io no, al contrario di quello che mi ha fatto dire un giornale… La mia Pasqua è trascorsa così, nell’attesa del grande giorno. Era la seconda volta che debuttavo nel giro di un anno. E se sbagliavo? Tutto da rifare, perché la critica colpisce Bearzot appena può. E io quindi ero chiamato a fare tutto il possibile perché la mia convocazione non risultasse un errore.
È andato tutto abbastanza bene, parlo egoisticamente è ovvio, perché in realtà abbiamo perso una partita stupida, che potevamo tranquillamente pareggiare. Non credo comunque sia stata una disfatta, e soprattutto non credo che questa sconfitta possa condizionare il rendimento dell’Italia ai Mondiali. Anche prima della partenza per l’Argentina erano tutti scettici, poi gli elogi si sprecarono. Ricorsi storici? Non farebbero certo male…
VITA DA PROFESSIONISTA
Quello che la gente mi chiede sempre è come si viva da professionista. Si, insomma, come vive un ragazzo diciottenne nel mondo dei grandi. Ci vive bene, magari deve privarsi di qualcosa ma ci vive bene. Gli allenamenti ad Appiano occupano la maggior parte della mia giornata, e molte volte quando torno a casa sono talmente stanco che non ho voglia di uscire.
Allora mi chiudo in casa e passo una rilassante serata in compagnia di mia madre e della televisione. I rapporti con i miei coetanei? Tutto come prima, anche se è ovvio che qualcosa in fondo è cambiato. E io che prendo tutti i giorni l’autobus per andare ad allenarmi me ne accorgo, perché un sacco di gente mi fissa quasi fossi uno strano animale per poi uscirsene con il solito: «Quello lì è Bergomi, quello dell’Inter. Pensa quanti soldi guadagna alla sua età…».
Mi verrebbe voglia di rispondere che guadagno poco rispetto alla maggior parte dei calciatori, che magari i soldi li vedrò l’anno prossimo o chissà quando. Ma sono troppo timido per prendermi questa confidenza, e allora me ne sto rintanato in un angolino quasi la gente mi facesse paura. I rapporti con gli altri calciatori? Con quelli dell’Inter non c’è problema, sono tutti ragazzi in gamba che mi hanno aiutato moltissimo nella fase di ambientamento. Però con quelli della Primavera, per esempio, molte volte non riesco a essere come vorrei.
Un esempio: quando tornai da Lipsia, il giovedì mattina mi recai come solito a prendere l’autobus per Appiano, e come solito alla fermata c’erano un sacco di ragazzi del Milan. Bene, da tanto tempo li incontro e mi fermo a fare due chiacchiere, però quel giorno mi sembrava che passando di lì avrei fatto la figura del montato, io che avevo giocato in Nazionale. Così feci il giro più largo e nessuno mi vide.
IL MIO FUTURO
È difficile sognare qualcosa di più rispetto a quello che ho già avuto. Giocassi ancora nella Settalese capirei, sarebbe fin troppo facile dire che il mio obiettivo è l’Inter o la Juventus. Io invece ho già la fortuna di essere in un grande club, ho giocato in Coppa dei Campioni e Coppa Uefa, Bearzot sembra intenzionato a portarmi in Spagna.
Cosa dovrei volere di più dalla vita? Niente. E allora aspetto la fine di giugno quando, Spagna o non Spagna, partirò per il servizio militare. La aspetto qui a Settala, dove forse non verrà mai nessuno a passare le ferie, dove forse la discoteca resterà sempre un miraggio, ma dove i sogni — e io l’ho provato — molto spesso diventano realtà. E a proposito di sogni e realtà: come si dice “zio Pepp” in spagnolo?
LA SUA SCHEDA
Giuseppe Bergomi è nato a Milano il 22 dicembre 1963. Sua madre Franca è casalinga, suo fratello impiegato in banca. Il padre è morto due anni fa, quando Giuseppe si trovava a Lipsia con la Nazionale Juniores.
Arrivato all’Inter, ha fatto tutta la trafila fino ad arrivare alla prima squadra il 22 febbraio 1981, in occasione di Inter-Como 2-1. In maglia nerazzurra ha disputato la scorsa stagione la Coppa dei Campioni e in quella in corso la Coppa Uefa.
Ha esordito in Nazionale A (dopo essere stato titolare della Pre Juniores, Juniores e Under 21) mercoledì 14 aprile, nel corso di Germania Est-Italia 1-0.