Sul logo dorato – Controcronaca
Il tempo di lettura dell'articolo è di 3 minuti
Sul logo dorato
Dice: per cambiare, da qualche parte bisogna pur cominciare. Vero, ma c’è “qualche parte” e “qualche parte”, se permettete. Riannodiamo: il calcio italiano sta andando a donne di facili costumi ed è necessario cambiare. Che fare?
Il passato insegna?
Non è certo la prima crisi, nella storia del calcio italiano. Nella seconda parte degli anni Quaranta, per esempio.
La guerra è appena finita, il Paese è un’enorme maceria. In campo calcistico, per fortuna, c’è il Grande Torino a illuminare le vicende pallonare. Poi arrivano Superga e l’inevitabile caos dovuto al “vuoto di potere” lasciato dai granata.
Vittorio Pozzo ha vinto tutto, ma l’ha fatto durante il Ventennio: è un fascista, va epurato. Livori in corso.
Mai più “un uomo solo al comando”, l’Italia del (e “nel”) pallone vuole la… democrazia! Largo quindi alle eterogenee Commissioni Tecniche, composte da allenatori (quando va bene), presidenti di club, dirigenti a vario titolo, addirittura giornalisti o imprenditori.
È il caso di Carlino Beretta, esperto – per diritto… dinastico – di armi e catapultato sulla panchina azzurra, magari con una bella Beretta nella fondina…
Aiutateci a casa nostra!
Le Commissioni Tecniche vanno avanti per tutti gli anni Cinquanta e i risultati li trovate nel palmares azzurro (figure di merda in serie).
E allora la Federcalcio che fa? Interviene! Sono gli anni in cui esplode il calciomercato e i club italiani vanno in giro per il mondo a ingaggiare campioni stranieri.
Già, ma la Nazionale non può schierare stranieri. A meno che… A meno che non saltino fuori, dai disastrati archivi delle nostre amministrazioni comunali, documenti da cui si evincano le origini italiane di calciatori nati all’estero.
Nascono così gli oriundi, e Dio solo sa quanti siano, tanto che la Nazionale nel 1957-58 – quella non qualificata per la prima volta ai Mondiali – manda in campo due calciatori, Ghiggia e Schiaffino, che la Coppa del Mondo l’hanno già vinta da protagonisti. Con l’Uruguay.
Fabbri il rivoluzionario
Chi fa qualcosa di veramente concreto, seppur involontariamente, per la Nazionale è Mondino Fabbri, facendosi sbattere fuori dai Mondiali del ‘66 dalla Corea del Nord.
Lo choc è tremendo, la reazione della Federcalcio violenta: chiusura delle frontiere calcistiche (riapriranno solo nel 1980), così se volete giocare a calcio in Italia siete costretti a fare qualcosa per forgiarveli in casa, i calciatori.
Sarà un caso, ma la cosa funziona sul breve (Europei 1968, secondo posto ai Mondiali 1970) sfruttando il buono che abbiamo (Riva, Rivera, Mazzola, Zoff, Albertosi…) e anche in prospettiva (andatevi a leggere i nomi delle leve calcistiche degli anni successivi).
Questione di look
L’attuale presidente della Federcalcio, Gravina, non ha mai nascosto la sua preoccupazione in chiave azzurra per la piega presa dal calcio italiano.
Ma siamo in Italia e soprattutto viviamo nel maledetto mondo globalizzato (ah, quanto rimpiango i ragazzi di Seattle e il Movimento no-global…), quindi i margini di manovra sono limitati.
Incentivi a chi mette in squadra autentici prodotti del vivaio (non ragazzotti raccattati qua e là, magari per realizzare plusvalenze fittizie)? Incentivi per il cosiddetto “calcio di base”? Niente.
E allora ecco a voi il nuovo marchio del nostro calcio, quasi come se il nostro problema fosse di look e non sostanziale, affidandoci alla creatività del gruppo creato da Lapo Elkann (che a me sta pure simpatico…).
Ok, da qualche parte bisogna pur cominciare. Speriamo almeno che al Mancio il nuovo logo piaccia…