Silvio, rimembro ancora…
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Silvio, rimembro ancora…
Il sito si chiama SoloCalcio, quindi è chiaro a tutti da subito che di calcio ci occupiamo, non d’altro. E oggi il calcio – checché voi tifiate – dev’essere in lutto, perché è morto un suo grande protagonista, Silvio Berlusconi.
Aveva 86 anni e ha lasciato una traccia indelebile nella storia pallonara, ripeto a prescindere dalla vostra fede calcistica. Recentemente, con il sodale Adriano Galliani, aveva preso a mano il Monza e i risultati si sono subito visti: storica promozione in Serie A, squadra giovane, talentuosa e italiana, alla faccia dell’esterofilia che affligge i nostri dirigenti.
Il Monza in classifica all’altezza di Bologna, Fiorentina e Torino, esponenti della nobiltà calcistica italiana, è l’ultimo lascito di un uomo che tanto altro ha fatto in vita. I trinariciuti (come li avrebbe definiti lui) o comunque gli odiatori in servizio permanente effettivo, possono tranquillamente abbandonare la lettura…
C’era una volta il Milan
Avevo tre figli: Matteo (che ci ha lasciato un anno e mezzo fa), Pietro (32 anni in luglio) e Martina (17 compiuti in marzo).
Pietro non si è mai interessato al calcio. Matteo e Martina, invece, si scoprirono milanisti per parte di… nonno, dal momento che mio padre iniziò l’avventura da direttore sportivo al Milan a metà degli anni Cinquanta e quando è passato a miglior vita, nel 2012, era ancora a libro paga in Via Turati. Se siete stati così bravi da non cliccare “esci” una volta letto l’incipit, vi spiego il mio problema.
Matteo – che era nato nel 1987 – è riuscito a godersi una buona parte del Grande Milan, anche se in effetti si è perso pezzi importanti: quando Van Basten fu costretto al ritiro, lui aveva appena cominciato ad andare alle Elementari…
Già, ma Martina? Lei, amore di babbo, mi ha già confessato che sta diventando tifosa di altra squadra… Ecco il problema: come faccio a spiegare a Martina che suo nonno lavorava per uno dei più grandi club calcistici del mondo, amato e soprattutto rispettato in tutti i continenti, capace di imporre la propria filosofia di gioco e il proprio metodo di gestione in ogni angolo del pianeta?
Le racconterò una storia, come mi chiedeva di fare ogni sera prima di addormentarsi quand’era piccola. Credo che comincerò così: c’era una volta il Milan di Berlusconi…
Dopo la tempesta
Ecco, c’era una volta il Milan. Correva l’anno 1986 e la Tempesta Farina era passata lasciando a terra un cumulo di macerie.
Il Diavolo rossonero, che aveva conosciuto momenti di gloria negli anni Cinquanta e Sessanta, prima di finire nelle grinfie di Giuseppone Farina (intenditore di calcio, ma drammaticamente non all’altezza sul piano finanziario) aveva conosciuto l’onta di una doppia retrocessione: nel 1980 (presidente Felice Colombo) perché invischiato pesantemente nel calcioscommesse targato Trinca e Cruciani; nel 1982 (presidente Gaetano Morazzoni) per… meriti sportivi, avendo chiuso al quattordicesimo posto su sedici partecipanti.
Fu dopo questo doppio scivolone che Farina acquisì il pacchetto azionario e andò a sedersi sulla poltrona più importante del club. Con Farina, nessuna retrocessione ma soddisfazioni davvero contingentate. Il Diavolo vivacchiava, più o meno come la dirimpettaia Inter.
Il punto di riferimento era la Juventus e, approfittando di questo vuoto di potere, altri club si affacciavano alla grande ribalta: la Roma, il Verona, il redivivo Torino, la pimpante Sampdoria.
Il cielo sopra San Siro
Il Milan sembrava destinato a diventare una squadra come tante altre: un grande passato e un futuro ricco soprattutto di punti interrogativi.
All’improvviso, lo scenario cambiò. L’inverno dell’86 stava terminando, quando il cielo sopra San Siro venne illuminato dall’arrivo di Silvio Berlusconi. Che per dare un segno tangibile delle sue intenzioni s’inventò il famoso raduno all’Arena con la squadra trasportata dagli elicotteri, ma in realtà aveva i piedi ben piantati per terra e le idee chiare.
Chiuse la stagione senza stravolgimenti, ma cominciando a modificare profondamente prima la società (Adriano Galliani amministratore delegato, Ariedo Braida direttore generale) e poi la squadra (al mercato estivo vennero ingaggiati giocatori che sarebbero risultati decisivi nel Nuovo Corso, tipo Donadoni, Massaro e Filippo Galli, mentre il pezzo più ambito, Gianluca Vialli, oppose clamorosamente il gran rifiuto…).
In panchina – più per rispetto che per convinzione – lasciò che andasse a sedersi il saggio Nils Liedholm: già, perché il Milan, “quel” Milan, era un club proiettato nel futuro che non dimenticava il proprio passato. Nessun ex rossonero, in quegli anni, si allontanava dalla Casa Madre (tolto Rivera, mal sopportato dal nuovo boss). Nasceva così un concetto di milanismo unico nel suo genere.
Il figlio di Cesare
Esempio: Paolo Maldini aveva da poco debuttato in Serie A. La sua classe si era già intravista, il suo cartellino faceva gola a tutti. Papà Cesare, capitano di mille battaglie rossonere, fu invitato a Torino dal vecchio amico Boniperti.
La Juve era fatta così: invece di farseli in casa, i campioni, andava in giro a procurarsi il meglio. La parabola di Cabrini volgeva inesorabilmente al termine e in Italia un solo calciatore poteva rinverdirne i fasti: Paolo Maldini, appunto.
Cesare andò nella tana di Boniperti (in Galleria San Federico, se ben ricordo) e ascoltò la proposta del Presidentissimo bianconero: una di quelle offerte che è impossibile rifiutare. Cesarone tornò a casa pensando in cuor suo che il figlio avrebbe trovato alla Juve l’ambiente ideale per volare alto. Gli piangeva il cuore, ma non poteva evitare l’inevitabile.
Andò in sede a parlare con Berlusconi: il presidente lo ascoltò e, prima ancora che Maldini senior confessasse l’ammontare dell’offerta ricevuta, gli mise davanti un contratto da firmare: la cifra era molto più sostanziosa di quella proposta dalla Juve, ma a convincerlo furono le parole del nuovo patron rossonero.
Che gli disse, più o meno: «Voglio trasformare il Milan nel club più forte del mondo e un Maldini non può giocare a calcio con una maglia con non sia a strisce rosse e nere». Fu così che Paolo e il Milan diventarono grandi insieme.
Sopra la panca…
Liedholm in panchina non durò molto: sul finire della stagione venne affiancato e poi avvicendato da Fabio Capello, altro pezzo di storia coccolato dal Diavolo.
Poi, nell’87, Berlusconi impresse un’accelerazione decisiva: il carneade Arrigo Sacchi in panchina, difeso oltre ogni ragionevole dubbio da una squadra che ne voleva l’esonero (beh, il Profeta di Fusignano non si presentò benissimo nello spogliatoio…), e in campo fuoriclasse del calibro di Gullit e Van Basten.
Oddio, in campo per la verità il Capo avrebbe voluto vedere Claudio Daniel Borghi, ma le regole del tempo (due stranieri per club) e l’opposizione di Sacchi dirottarono l’argentino al Como, prima tappa del suo viaggio verso l’anonimato.
Un modello per tutti
Galliani e Braida gestivano il club e la squadra senza condizionamenti, ma l’ultima parola era sempre e comunque di Berlusconi, ben felice di assumersi onori e oneri. Il Milan diventò un modello per tutti. Un modello impossibile da imitare, però, perché impossibile da trovare era un presidente come il suo.
E il Milan non diventò grande solo per i soldi investiti in campagna acquisti: Berlusconi volle rafforzare il Settore Giovanile, che in quegli anni regalò ottimi frutti, diede nuovo impulso alla squadra degli osservatori (possibilmente ex milanisti) sparsi in ogni angolo d’Italia e del mondo, risvegliò in dirigenti, calciatori e tifosi l’orgoglio di essere milanisti.
I giovani e i vecchi…
Berlusconi, che pure non aveva il problema del tempo libero, voleva essere informato anche delle cose meno importanti. Veniva organizzata la festa delle Scuole Calcio rossonere e lui c’era. Non solo: saliva sul palco assieme ai ragazzini e li salutava uno a uno.
Era così che secondo lui si formavano i milanisti, e aveva ragione. Si fidava dei collaboratori che aveva scelto, però non li lasciava soli nel momento delle decisioni: se veniva commesso un errore, se ne assumeva la responsabilità; logico, a quel punto, che ogni merito fosse suo. E di meriti ne ha avuti tanti… Il suo concetto di società calcistica era davvero nuovo: anche il particolare più insignificante, per lui, era importante.
Piccolo aneddoto familiare per chiarire il concetto. A un certo punto, mio padre – nato nel 1923 – maturò il diritto alla pensione. Chiese all’amministrazione il piacere di preparargli il conteggio. Non aveva intenzione di mollare, ma qualcuno ne parlò con il presidente.
Un giorno, a Milanello, atterrò Berlusconi. Mio padre e altri dirigenti gli andarono incontro per salutarlo. Lui lo prese in disparte e gli sussurrò: «Montanari, non mi faccia preoccupare, che cos’è questa storia che vuole andarsene?».
Mio padre, che difficilmente si emozionava, rimase senza parole: è morto tanti anni dopo, ma ha lavorato in Via Turati fino all’ultimo giorno della sua vita.
Ieri e oggi
Ecco, la storia che racconterò a mia figlia sarà grosso modo questa, ovvero quella di un club che seppe essere d’esempio su tutti i fronti, che riuscì ad accaparrarsi i migliori calciatori non solo grazie alle sue disponibilità economiche, ma in virtù del suo luccicante blasone.
E quel Milan che c’era una volta, se mi è concessa l’amara digressione, è da qualche tempo che non c’è più. Se vogliamo fissare la data, propongo quella dell’addio al calcio di Paolo Maldini nel 2009.
Il Milan di cui ho scritto, il Milan che conquistò il mondo, avrebbe spalancato le porte al suo ex capitano, invece di avvolgerlo in un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Quello fu il segno che tanto era cambiato, che Berlusconi era in altre faccende affaccendate e chi prendeva decisioni non si confrontava più con il Capo e con la sua filosofia.
Quattordici anni dopo, a Paolino è capitato addirittura di peggio, come sappiamo. E allora, c’era una volta il Milan. E c’è ancora, per carità, ma non sarà mai più la stessa cosa. L’abito non fa il monaco. E neppure il Cardinale.