Sampdoria 1990-91 La chiamavano Samp d’oro
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La chiamavano Samp d’oro
Dopo la presentazione al Torino Film Festival, “La bella stagione”, docufilm sulla grande Sampdoria che conquistò lo storico scudetto, arriva a Genova.
Domenica 27 novembre, alle ore 18.00, al cinema The Space del Porto Antico, si terrà infatti la proiezione in anteprima del film diretto da Marco Ponti, che sarà in sala per il pubblico da lunedì 28 novembre a giovedì 1 dicembre.
Già, ma cos’era questa squadra che conquistò un po’ tutti? Raccontiamola facendoci accompagnare da un Virgilio d’eccezione, Fausto Pari, una delle colonne blucerchiate…
A qualcuno piace bionda
Quando Elio Petri portò nelle sale cinematografiche il suo “La classe operaia va in paradiso” (1971), lui frequentava la quarta elementare. Quando Luciano Ligabue, nel 1999, uscì con il suo “Una vita da mediano”, la dedicò a Lele Oriali e lui stava per chiudere la sua carriera da calciatore nel Modena.
Eppure, nonostante questo, Fausto Pari è il classico esempio di operaio del pallone arrivato al paradiso calcistico avendo vissuto una vita “a recuperar palloni… a giocare generosi” e tutto il resto, per dirla con Liga. Se in questi giorni si festeggia il trentennale dello storico scudetto della Sampdoria, lui ha grandi meriti.
Perché quella era la squadra sognata da Paolo Mantovani e costruita da Paolo Borea, certo, così come era la squadra dei gemelli diversi Roberto Mancini e Gianluca Vialli, esaltati dalla guida di quel santone della panchina che era Vujadin Boskov, ma non tutto sarebbe filato liscio se lì, nel cuore del campo (e dello spogliatoio), non ci fosse stato questo robusto romagnolo dai cento polmoni e dai piedi se non buoni almeno discreti, uno che magari non squarciava il campo con lunghi lanci millimetrici, ma sapeva sempre a chi appoggiare il pallone e, soprattutto, sapeva andarlo a recuperare.
Oggi Fausto vive a Parma e, chiusa l’esperienza da direttore sportivo, fa il procuratore. Assieme a Tullio Tinti e Manuel Montipò ha dato vita alla TMP soccer, società che gestisce, tra gli altri, Bastoni, Zaccagni, Audero, Ranocchia, Darmian, Gabbia, Romagna, Vignato, Soriano e Sansone.
Gli abbiamo chiesto di essere il nostro Virgilio alla riscoperta di quella strepitosa Sampdoria 1990-91 che si aggiudicò l’ultimo scudetto “diverso” del nostro campionato e lui ancora una volta si è caricato la squadra sulle spalle senza risparmiarsi.
Via XX Settembre
Il miracolo doriano nasce nel cuore della città, in Via XX Settembre, dove gli uomini di Paolo Mantovani, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, mettono insieme pezzo dopo pezzo la futura squadra Campione d’Italia.
A proposito, che tipo era il presidente? Fausto non ha tentennamenti: «Una persona fuori dal comune, chi non l’ha conosciuto non può capire. Lui è il principale artefice dei successi che ottenemmo in quegli anni, e non parlo solo dell’aspetto finanziario: lui voleva bravi calciatori, ma soprattutto voleva bravi ragazzi con cui aveva rapporti diretti, non filtrati da altri.
Quando arrivai a Genova, nell’83, svolgevo il servizio militare; lui, per via di alcuni problemi giudiziari, viveva in Svizzera, ma venne in Costa Azzurra per salutare la squadra e conoscere i nuovi. Io non c’ero, così qualche mese più tardi, risolti i problemi, quando tornò a Genova mi convocò subito in sede.
Lo ammetto: di fronte a lui mi bloccai, incuteva grande rispetto. Fu lui a sbloccarmi, a farmi sentire a mio agio, e da lì iniziò un bellissimo rapporto che non si è mai interrotto. Per capirci: un giorno, in occasione di un sorteggio di Coppa Italia, facemmo una scommessa mettendo in palio un milione.
Vinse lui, ma non volle incassare subito la vincita. Mi disse: “Mi darai 1.000 lire al giorno”. E da allora, tutti i giorni mi veniva incontro con la mano tesa e il sorriso sulle labbra chiedendo se avevo il suo millino…».
Accanto a Mantovani agiva il direttore sportivo, Paolo Borea… «Altra persona meravigliosa, l’uomo che traduceva in realtà i sogni del presidente. Anche con lui un rapporto eccezionale, non solo di natura professionale. Un altro aneddoto per spiegare: nel ‘92, cinque giorni prima della finale di Coppa dei Campioni, venni ingaggiato dal Napoli. Arrivò il diesse partenopeo, Giorgio Perinetti, per farmi firmare il contratto e da quel momento Borea smise addirittura di salutarmi. Non capivo, anzi ci stavo proprio male, allora qualche tempo dopo gli telefonai chiedendo spiegazioni. E la spiegazione era semplice: la Sampdoria ovviamente aveva dato l’ok alla trattativa, ma lui voleva che io rifiutassi…».
La triade blucerchiata aveva la terza punta in Vujadin Boskov… «L’uomo giusto al momento giusto. Il suo merito più grande fu quello di farci capire le nostre qualità, insomma quanto eravamo forti. Una persona deliziosa, un tecnico scaltro, un filosofo prestato al calcio. Anche per lui, un ricordo personale. Tre anni dopo lo scudetto, me lo ritrovai allenatore del Napoli. Il giorno della presentazione andai al campo, a Soccavo, con una gran voglia di riabbracciarlo. Invece, con mio grande stupore, non mi salutò neppure. Tornai a casa e dissi a mia moglie: “Sono a pezzi, il mister non mi ha neanche cacato…”.
Un paio d’ore dopo, squillò il telefono. Era lui. “Tu stasera sei a cena con me, mi devi raccontare tutto quello che sai dell’ambiente”. Andammo a cena e mi spiegò che mi aveva ignorato per non mettermi in difficoltà: “Non voglio che tuoi compagni pensino che tu sei mio cocco. Ma tu sai che lo sei”. Che cosa vuoi dire, a uno così?».
I Ministri della Difesa
Ok, in sede e a bordo campo c’era grande qualità, ma non è che in campo il livello scendesse, a cominciare dalla difesa. Che cosa ci dici di Gianluca Pagliuca? «Aveva vent’anni, quando arrivò da noi, e neanche 22 quando gli venne affidata la maglia da titolare. Grandi qualità tecniche e fisiche, ma soprattutto una spensieratezza che poteva sembrare imprudenza e invece era proprio spensieratezza, perché Boskov gli fece subito capire quanto era forte. Portò nello spogliatoio la sua bolognesità, quel modo di affrontare anche i momenti più complicati con il sorriso sulle labbra e in campo fu spesso determinante».
Con un titolare del genere, dura la vita del dodicesimo… «Vero, eppure Giulio Nuciari ci portò in dote la sua grande serenità. Diciamo che fu intelligente e capì che per fare il secondo del portiere della Nazionale serve tanta pazienza…».
Davanti a Pagliuca, i Ministri della Difesa non mancavano… «E in questo caso partirei doverosamente dal capitano, Luca Pellegrini, la “prima pietra” posata da Mantovani, che pure nell’anno dello scudetto ebbe qualche problema fisico e saltò la metà delle partite. Per anni è stato mio compagno di camera in ritiro: schivo, magari un po’ permaloso anche se si adattò benissimo all’andazzo generale. Un difensore completo, un libero che sapeva farsi trovare al posto giusto nel momento giusto: una sicurezza».
Dici sicurezza e a me viene in mente Pietro Vierchowod… «Che spettacolo! Carattere introverso, ma in campo diventava Highlander, fortissimo e indistruttibile. Pensa che andammo a giocare a Torino contro la Juventus e lui ebbe uno scontro violentissimo con Julio Cesar, che a sua volta non era esattamente una piuma. Impatto tremendo, Pietro si rimise in piedi e continuò a giocare. Alla sera, tornati a Genova, andammo a cena insieme e a un certo punto mi disse “non sto bene, meglio che torni a casa”. La mattina seguente si sottopose a visita medica e gli venne diagnosticato un pneumotorace. Cioè, aveva continuato a giocare con un polmone bucato…».
Era in buona compagnia, Vierchowod… «Immagino che tu ti riferisca a Moreno Mannini, uno dei difensori più veloci ch’io abbia mai incontrato. Aveva la capacità di anticipare le intenzioni degli avversari, per lui l’anticipo era il pane quotidiano.
Fuori dal campo sembrava introverso ma in realtà era timido, perché lontano dall’ufficialità era di una simpatia unica, un trascinatore». Daquelle parti era facile trovare pure Marco Lanna. «Lui era genovese, doriano, cresciuto nel vivaio e arrivato in prima squadra, il massimo per un ragazzo. L’anno dello scudetto fu determinante, perché ebbe il compito di sostituire il capitano Pellegrini quando gli infortuni lo tenevano fuori. Una sicurezza: meno appariscente di altri, ma sapevi che in caso di necessità lui ci sarebbe stato».
Meno facile da inquadrare tatticamente Ivano Bonetti… «Perché era un eclettico, un incursore nato chiamato anche a fare il terzino sinistro. Per lui cambiava niente, era dinamite pura, il padrone assoluto di quella fascia. E fuori dal campo ti assicuro che non era meno esplosivo: era il sodale perfetto per Vialli. Quante risate ci hanno regalato, lui e Luca…».
Tornando a Lanna, altri ragazzi del vivaio si affacciarono in prima squadra, quell’anno. «Umberto Calcagno, Giovanni Dall’Igna e Michele Mignani facevano parte a pieno titolo del gruppo dei titolari, solo che erano più giovani di noi e ogni tanto ci guardavano come si guardano i matti. Solo fuori dal campo, però, perché in partita eravamo concentrati sul nostro dovere…».
La virtù sta nel mezzo
Andiamo avanti, prendiamo in esame il centrocampo. Giuseppe Dossena? «Un calciatore duttile, capace di ricoprire con efficacia tanti ruoli. Aveva i piedi del rifinitore, la testa del regista e i polmoni del mediano: mica poco, eh?».
Sembra la descrizione di un altro vostro centrocampista, Toninho Cerezo… «Vero, anche lui disponeva di una duttilità straordinaria e faceva tutto con una leggerezza incredibile: insomma, regalava giocate da campione ma sembrava che non avesse fatto niente di eccezionale. Fuori dal campo, poi, era di una simpatia unica: con Vialli ne ha combinate di tutti i colori».
Compresa la capigliatura bionda a scudetto conquistato o l’importazione della bibita al guaranà… «Lui, Gianluca e Ivano se l’erano detti in ritiro: se vinciamo lo scudetto, ci facciamo biondi. A scudetto vinto, passarono dal parrucchiere, perché ogni promessa è debito. Quanto al guaranà, Toninho ne magnificò le qualità, ci fece una testa grande così e alla fine Vialli e il Mancio decisero di assecondarlo e costituirono una società per importare quella benedetta bibita. Però non chiedermi quante bottiglie ne hanno vendute…». Poche, occhio e croce.
Detto che uno dei pilastri del centrocampo eri proprio tu, vediamo gli altri, partendo da Srečko Katanec: «Un uomo introverso, dotato di grande fisicità. Dava linearità alla manovra: niente guizzi, tanta sostanza».
Avendo definito Katanec “introverso”, muoio dalla voglia di conoscere l’aggettivo che userai per Oleksij Mikhailichenko… «Mettiti nei suoi panni: a 27 anni, arriva a Genova senza essere mai uscito prima dall’Ucraina, anzi, addirittura senza essere mai uscito dalla Dinamo Kiev. Boskov mi mise in camera con lui per agevolarne l’ambientamento: possedeva sensibilità fuori dal comune, era un bravissimo ragazzo e un ottimo calciatore, ma in effetti non è riuscito a dimostrare tutto il suo valore, basti pensare che nonostante avesse un contratto triennale, a fine stagione fu ceduto ai Glasgow Rangers».
Rimane sotto traccia, nei ricordi, Giovanni Invernizzi… «Che in realtà risultò molto utile durante la stagione, addirittura importantissimo in certi frangenti, sapendosi disimpegare in tutti i ruoli da centrocampo alla difesa».
Attilio Lombardo, se non ti dispiace, lo utilizzerei come trait d’union fra centrocampo e attacco… «Un uragano. Portò in dote freschezza, gioventù, velocità, generosità. Ecco, lui davvero non ebbe problemi a integrarsi nel gruppo: appena arrivato, si ambientò subito. Una cosa che forse non tutti sanno, è che era la vittima preferita di Mancini. Quando qualcosa non andava come avrebbe voluto, il Mancio richiamava lui. Così, a prescindere…».
Il triangolo no
Ok, siamo arrivati all’attacco in senso stretto, ai gemelli diversi Mancini e Vialli. «Nessun dubbio sul fatto che loro fossero le stelle della squadra, però a distanza di trent’anni vorrei rendere merito a un attaccante che all’epoca non venne celebrato come avrebbe meritato, Marco Branca. Un signor attaccante, capace di segnare gol importanti e di sostituire, quando ce n’era necessità, Vialli o Mancini».
Giusto, anche perché altrimenti di lui si ricorda solo l’abilità nei videogiochi e la battuta di Vialli “l’ho voluto perché è l’unico capace di battere i miei record alla consolle…”. «Sinceramente, non ricordo se era abile con il joystick, in compenso ricordo bene che era una gran bella punta».
Tanto che ci siamo, Gianluca Vialli… «Lui fu incredibile, di anno in anno un crescendo continuo, un trascinatore – in campo e fuori – nato. Cioè, non era importante solo per i gol che segnava, ma anche per l’esempio che dava a tutti. Quell’anno era tornato amareggiato dai Mondiali, l’inizio fu difficile. Boskov mise come orario limite per arrivare all’allenamento, a Bogliasco, alle 11. Luca bonfonchiò, perché era un dormiglione, però a modo suo non arrivò mai in ritardo».
Perdona la curiosità: che cosa significa “a modo suo”? «Significa che alle 10.50 la sua auto entrava nel parcheggio del centro di allenamento. Lui scendeva in pigiama dall’auto, salutava tutti, andava nello spogliatoio a cambiarsi e poi veniva in campo. A modo suo, appunto…».
Certo che se Luca era amareggiato per i Mondiali, chissà l’incazzatura di Roberto Mancini… «Guarda, con il Mancio bastava non pronunciare le parole chiave, tipo Nazionale, Mondiali e Vicini: si macerava dentro, noi ce ne accorgevamo, ma lui era fatto così, un suo problema doveva restare, appunto, suo.
Per il resto, Roberto valeva da solo il costo del biglietto: classe pura, giocate geniali eseguite con la naturalezza del campione, davvero uno spettacolo. Se devo trovargli un punto debole, direi il fisico: è più atleta adesso di quando giocava a calcio.
E comunque era nato leader: se la prendeva volentieri con Lombardo, però martoriava tutti i compagni, quando vedeva qualche giocata sbagliata. Insomma, quello che sta facendo da Ct, per me non è una novità: ha sempre avuto ben chiara in testa l’idea di calcio spettacolo». Trent’anni dopo, niente è cambiato…