C’ero una Volta
Il Silenzio Stanca
Il tempo di lettura dell'articolo è di 28 minuti
Lo so, è l’incipit (storpiato) di tutte le favole. Io non ho mai scritto una favola, non ho più l’età per le favole, ma una favola – professionalmente parlando – l’ho vissuta. Giornalista professionista da quarant’anni: insomma, qualcosa avrò pur fatto, e sto andando a sfogliare le pagine per recuperarne le tracce. Lo faccio sfruttando il regalo di Marco De Polignol, che si è preso la briga e di certo il gusto di catalogare Guerin Sportivo e Calcio 2000, le “case” che hanno ospitato la mia prima e seconda vita (già, ormai sono alla terza età…). Ogni settimana andrò a pescare in quel magico hard disk un pezzo di me (non c’è bisogno di aggiungere altro, please…), con la speranza di presentarvi una persona (non mi piacciono i personaggi) come ho avuto la fortuna di conoscerla io: senza filtri, solo un taccuino, una penna e tanta curiosità. Dice che la gente non ha più voglia di leggere: meglio così, la maggioranza penserà che si tratti di un inutile culto della personalità e tirerà dritto senza soffermarsi. Per gli altri, che saranno pochi ma mi auguro “buoni”, ecco a voi C’ero una volta…
Diciamolo al di fuori di ogni retorica: in alcuni casi, un sano silenzio stampa ci risparmia quelle inutili litanie preconfezionate che ci vengono ammollate in conferenza stampa… Insomma, un bel tacer non fu mai scritto. Calciatori (e in misura minore allenatori) vi si rifugiano quando si sentono attaccati senza aver commesso reati.
Il caso più eclatante resta quello degli Azzurri a Spagna 82: in quel caso, non solo era dovuto (i giornalisti e certi politici si coprirono di ridicolo), ma ottenne anche un grande risultato, quello di compattare ulteriormente la squadra di Bearzot, che vinse il Mondiale contro ogni pronostico.
Sette anni dopo, nell’89, era diventata quasi una… moda, e me ne occupai sul Guerin Sportivo con l’aiuto di alcuni colleghi di quotidiani impegnati in questa lotta contro il mutismo. Anch’io, nel mio piccolo, mi trovai ad affrontare il problema e con calciatori di prima grandezza. Mancini e Vialli, gioielli di una Samp ormai grande a tutti gli effetti, si divertivano a proclamare silenzi stampa a… intermittenza (un giorno taceva uno, l’indomani l’altro).
Come si faceva, in quel caso? Non so che cosa facessero gli altri, io andavo a Genova, mi facevo offrire il pranzo alla Ruota di Nervi (una sorta di “mensa di lusso” in salsa doriana), mi facevo raccontare tutto da Roby e Luca e poi scrivevo il pezzo senza dimenticare la richiesta dei “gemelli” («Mi raccomando, Marco, che non esca una sola frase virgolettata: siamo in silenzio stampa…»). Facile, no?
INCHIESTA / IL BLACK-OUT
Tutto cominciò nel 1982, al Mundial spagnolo, quando la nostra Nazionale decise di interrompere i rapporti con la stampa.
Da allora, a scadenze regolari, quasi tutte le squadre hanno adottato la stessa “tattica” suscitando polemiche e perplessità.
Quella Voglia di Sfogarsi
(Marino Bartoletti) Aiuto! Siamo circondati dal silenzio. Nel calcio dei mille risvolti (sportivi, sociali, umani, psicologici, economici, editoriali e persino esistenziali) sono sempre più ricorrenti le occasioni in cui si parla… di chi non parla.
La mappa del mutismo si sta allargando a macchia d’olio sullo Stivale bullonato: la reticenza si mescola con la superstizione, la ripicca con la giusta rivendicazione, il diniego più totale con l’ammiccamento ufficioso, l’intransigenza col blackout a fasce regolamentate.
Il cronista è chiamato non solo a inediti slalom organizzativi, ma anche a performances mnemoniche non contemplate dal contratto integrativo («Quelli hanno ripreso a parlare oppure no? O invece sono gli altri che hanno annunciato il silenzio stampa? Oddio, forse mi confondo. E comunque chi sono gli “squalificati” di quel club: i corrispondenti locali o gli inviati dei quotidiani sportivi? Le domande sul tempo e sulla moda fanno parte degli argomenti proibiti o sono di libera formulazione? E se gli chiedessi di rispondermi a gesti? La pagina 777 del Televideo che riporta le dichiarazioni per i non udenti di De Napoli in Nazionale è anticostituzionale o di libero accesso anche ai giornalisti»?).
Insomma il fenomeno — se lo vogliamo chiamare così — ha assunto dimensioni e risvolti non solo imponenti, ma anche inestricabilmente inediti.
Nell’ultimo numero della rivista dell’Associazione Calciatori è addirittura apparso un fondino “ideologico” sulla materia (anonimo, ma verosimilmente ispirato da Sergio Campana): «Sul silenzio stampa attuato dalle squadre di calcio, una consuetudine che sta prendendo piede, ormai si è detto proprio tutto: che non ha senso, che è assolutamente legittimo, che è contro gli interessi degli stessi protagonisti, che punisce solo i tifosi, che dovrebbe semmai essere sostituito dal “No comment”. Insomma è stato analizzato in tutti i suoi aspetti.
Ci pare peraltro opportuno riprendere il discorso sull’atteggiamento assunto da qualche giornale, improntato all’ironia e all’apparente indifferenza, di fronte alla scelta del silenzio adottata dai calciatori. Che ci importa, dice qualcuno, se i calciatori non parlano? I giornali escono lo stesso e non cade certo il mondo se non ci sono scritte le dichiarazioni dei giocatori, che poi non sono mostri di eloquenza. Noi non saremmo così tranquilli e poi non si spiegherebbe allora la caparbietà con cui si cerca l’intervista o la dichiarazione a tutti i costi.
Da anni la stampa privilegia le voci dello spogliatoio, le dichiarazioni e le conseguenti polemiche. Se per ipotesi venisse all’improvviso a mancare questa materia prima, sì, non sarebbe magari una tragedia, ma un po’ di panico in giro, di certo, si noterebbe».
Il punto di vista è rispettabilissimo, ancorché fatalmente corporativo: d’altra parte la Costituzione garantisce il diritto alla parola, ci mancherebbe che non assicurasse anche quello al silenzio! Ma Campana non se ne abbia a male se — corporativismo per corporativismo — il Guerino ribadisce (affettuosamente) la sua indifferenza al fenomeno e se si chiama fuori dal presunto stato di panico che, secondo l’ Assocalciatori, già irrigidirebbe tastiere e idee.
I giocatori facciano quello che vogliono, reagiscano come vogliono, condannino chi vogliono: ma il direttore di questo giornale ha la presunzione (verosimilmente non insana) che il lettore continuerà a venir regolarmente servito per tutte le settimane che restano da qui al giorno del Giudizio Universale della stampa periodica. Ciò non toglie che l’italianissima abitudine di cui si dibatte in queste pagine non meritasse e non meriti considerazione e attenzione.
Nella convinzione che il silenzio stampa sia tutto sommato meno dannoso di quel silenzio-stampella che, troppo spesso ultimamente, molti professionisti si vanno infliggendo l’un l’altro.
Il Silenzio Stanca
Omertà? Mancanza di idee? Voglia di tenerezza? Legittima difesa? O, molto più semplicemente, solo una moda? Noi, miseri cronisti sportivi, non possiamo contare nemmeno sulla pasta Agnesi: quando i giocatori (o i dirigenti, o gli allenatori) decidono di cucirsi la bocca, il silenzio è davvero totale. Taccuini chiusi, microfoni spenti, telefoni muti: gli eroi delle nostre domeniche pallonare si rifugiano sempre più spesso in quello che viene impropriamente definito silenzio-stampa, un tempo strumento di difesa della privacy di chi viveva, ad esempio, il dramma di un rapimento e oggi abusato vezzo di chi probabilmente non avrebbe troppe cose da dire.
Certo, ci sono anche casi di black-out sacrosanti, basti ripensare al Mundial spagnolo o a certe campagne denigratorie basate su semplici pettegolezzi ma non su dati oggettivi e fatti tecnici. Questa, però, non è la regola. Tutti — chi più, chi meno — almeno per una volta nella vita hanno preso la “storica” decisione di dare qualche momento di riposo alle corde vocali.
Sì, anche personaggi estroversi come Walter Zenga… «Non ne potevo più» ricorda il portierone della Nazionale, «perché sul mio conto ne leggevo di tutti i colori. Vita privata, futura destinazione, liti con i tifosi: insomma, non avevo un momento di tregua. Così un giorno annunciai che non avrei più parlato fino a nuovo ordine con nessun giornalista». La decisione fu però revocata a tempo di record… «La mattina seguente lessi su un giornale delle cose incredibili, così… ruppi il silenzio-stampa per telefonare all’autore dell’articolo e spiegargli come stavano realmente le cose». A bocca chiusa, insomma, ma per meno di ventiquattro ore.
L’altro silenzio-stampa che non ti potevi aspettare è quello di Gianluca Vialli. Il doriano, grande campione e ragazzo intelligente, parlerebbe anche di… notte, tanto è disponibile con la stampa. Ma attenzione: non con “tutta” la stampa, perché c’è un giornalista (uno solo, a quanto ci risulta) che è stato recentemente squalificato per… rottura prolungata. Oltre a questi, non mancano altri esempi di scioperi della parola individuali.
Un mese fa, a sorpresa, Hugo Rubio, cileno in forza (espressione esagerata…) al Bologna, decise di non confidare ad alcun cronista le sue idee: sotto le Due Torri nessuno sembrava averne fatto un dramma.
Più complesso, invece, il discorso che riguarda Zavarov. Il sovietico della Juve, notoriamente in difficoltà con la nostra lingua (oltre che sul campo), ha chiesto una pausa di riflessione nel tentativo di ritrovare se stesso: lo attendiamo con ansia all’esame di maturità (linguisticamente e tecnicamente parlando).
Quinto fra cotanto senno, un illustre sconosciuto del movimento calcistico nostrano: Luciano Barboni, di professione portiere, per una vita a galla fra il dilettantismo e il semiprofessionismo e solo da un paio di stagioni approdato alla Serie B (a 30 anni) grazie al Barletta. Relegato in panchina dal più titolato Coccia, Barboni fu richiamato a vestire la maglia numero uno in occasione della trasferta di San Benedetto del Tronto. Quando i giornalisti gli si fecero incontro per raccogliere le sue impressioni, lui li gelò con una sola frase, giunta appena in tempo a precedere il riserbo: «Vi ricordate di me solo ora?». Scusi il vuoto di memoria.
Se il silenzio-stampa individuale può essere gestito con una certa elasticità dall’interessato, quello collettivo diventa spesso un’arma a doppio taglio. Come la mettiamo, tanto per citare un caso, con quei giocatori che conducono trasmissioni televisive? Ecco l’esperienza di Zenga: «Prima dell’inizio del campionato, io e i miei compagni cominciammo a leggere cose incredibili. Secondo alcuni giornali l’Inter era allo sfascio e Trapattoni stava per essere licenziato. Noi, per dimostrare quanto eravamo uniti e soprattutto quanto eravamo legati al mister, per un mesetto rifiutammo contatti con la stampa. Per quanto riguarda la mia attività televisiva, mi limitai a… passare dall’altra parte della barricata: in altre parole feci il presentatore e l’intervistatore, senza lasciare lo straccio di una dichiarazione. Una volta soltanto non rispettai le regole: da tempo avevamo programmato un’intervista a Matthaus e andammo regolarmente in onda. A Lothar feci solo domande in generale, del tipo “Come ti trovi in Italia?” e via dicendo».
Il silenzio-stampa più… rumoroso di cui si abbia notizia è quello di Diego Armando Maradona: pur di esprimere un giudizio su tutto quanto fa spettacolo, il mitico Pibe non ha esitato a gettarsi nel Canale (10, ovvio) ogni lunedì che il buon Dio ha mandato in terra. La regola «zitto e Mosca», evidentemente, non fa per lui.
DI squadre mute, attualmente, se ne contano quattro: Lazio, Napoli, Torino e Verona.
La Lazio, in fatto di black-out, è quasi una sicurezza: a parte Acerbis, che non ha mai parlato in carriera, il club capitolino a scadenze quasi regolari ha messo il bavaglio ai propri dipendenti, basti ripensare alla lista dei buoni e dei cattivi compilata l’anno scorso da Fascetti (ecco un tecnico che parlerà anche tramite… seduta spiritica).
Il Torino, invece, ha chiuso le porte in faccia ai gazzettieri per motivi di ordine interno. Federico Bonetto, manager granata, sintetizza così la situazione: «Avevamo bisogno di serenità in un momento delicato. Erano troppe le dichiarazioni distorte o male interpretate, allora abbiamo deciso di affidare i rapporti con la stampa a Cravero e Comi. Comprendiamo le esigenze degli organi d’informazione, ma quelle della squadra — evidentemente — ci stanno più a cuore».
E siamo alla nota dolente: noi giornalisti raramente riusciamo a capire quello che vogliono dire i calciatori, almeno fino a quando non decidiamo di azionare il registratore. A quel punto, invece dei soliti insulti riceviamo telefonate più soft, del tipo «vedi se riesci ad addolcire la pillola». Capita anche questo, ma è inutile stare a parlarne.
Molto meglio occuparsi del Verona, sceso in campo compatto in difesa del presidente Ferdinando Chiampan. Il massimo dirigente scaligero fu attaccato violentemente da Il Nuovo Veronese e da Telenuovo e chiese una dimostrazione di solidarietà ai suoi ragazzi nei confronti dei giornalisti delle due testate. Pacione e compagni decisero che sarebbe stato stressante guardarsi attorno ogni volta che dovevano aprir bocca: molto meglio generalizzare. Qualcuno assicura che entro breve sentiremo parlare nuovamente Volpecina, Berthold e gli altri, «anche perché» ci sussurra una voce amica, «fra un po’ è tempo di mercato ed è meglio farsi notare». Giusto.
In Serie B, oggi, si parla in piena libertà, ma fino a qualche tempo fa era un problema raccogliere dichiarazioni. Il Padova, dopo la cocente sconfitta di Piacenza datata 31 dicembre 1988, diede il via a un braccio di ferro durato ventitré giorni. All’inizio dell’anno, infatti, Il Mattino di Padova e Il Gazzettino misero sotto accusa la squadra di Buffoni, che fino a quel momento aveva regalato più stecche che acuti. La goccia che fece traboccare il vaso portò la … firma di Franco Holzer, giornalista che ogni mercoledì regala ai lettori de Il Gazzettino una rubrica intitolata “El Cantòn dee busie” (che poi sarebbe “L’angolo delle bugie”). In un fondino al vetriolo, Holzer definì “Paiassi” quei giocatori che qualche giorno prima erano malamente naufragati al Galleana. Morale della favola: giocatori muti, allenatore contento e tifosi inviperiti. Anzi, talmente inviperiti da emettere un comunicato ufficiale nel quale si dicevano ingiustamente penalizzati da questo atteggiamento ostruzionistico.
Più nebulosi i motivi che portarono al silenzio-stampa il Licata e la Reggina, mentre Zdenek Zeman — allenatore del Messina — ci stupirebbe se un giorno decidesse di aprire bocca, rompendo un riserbo che dura ormai da una vita.
Ben più interessante, invece, il «dico-e-non dico» del Cosenza. Dopo la sconfitta interna subita a opera della Cremonese, la squadra di Giorgi si chiuse nel più assoluto mutismo, improvvisamente, alla vigilia della trasferta a Monza, capitan Castagnini annunciò la lieta novella: «Da domenica torneremo a parlare». Occhiate d’intesa, logica soddisfazione dei cronisti locali. Ma in realtà la decisione dei rossoblù aveva un altro scopo: quello di giustificare l’adesione all’invito a partecipare alla Domenica Sportiva. Dopo di che, forse esausti per le martellanti domande di Sandro Ciotti, i calabresi ripresero a stare zitti. Con effetti devastanti sulle tirature di tutti i giornali…
Detto per inciso che neanche la Serie C si sottrae a questo estenuante minuetto (silenzio-stampa a Brindisi, Martina Franca, Trani, Andria, Monopoli e chissà dove), non ci resta che fare un piccolo passo indietro per spulciare in archivio alcuni casi particolarmente interessanti.
A Pisa, per esempio, fa più notizia sentir parlare un giocatore che leggere il comunicato con cui viene annunciato il black-out. Durante questa stagione, tanto per gradire, una ventina di giorni di mutismo: niente, in confronto a quello che capitò nel 1987. I toscani si trovavano in Serie B e Romeo Anconetani, vulcanico presidente del club nerazzurro, impose il silenzio-stampa per quasi sei mesi, ovvero fino al raggiungimento della promozione.
Un altro fatto che rischiò di mandare in crisi giornali ed emittenti radiotelevisive fu il mutismo di Stefano Tacconi, uno dei personaggi più divertenti e dissacratori del nostro calcio. Era il 1987, l’estremo difensore juventino appese le labbra al… chiodo e Dino Zoff, interpellato da un quotidiano, commentò così l’accaduto: «Si sono inaspriti certi rapporti, anche se adesso forse si sta esagerando e si approfitta di uno strumento di difesa del calciatore che dovrebbe essere usato solo in casi estremi. Tacconi sta zitto?» proseguì SuperDino. «Lui è un caso a parte. Se un giocatore ha da spendere mille parole all’anno, Stefano le usa tutte prima che finisca il girone di andata».
Nel corso degli anni, comunque, anche noi giornalisti abbiamo dato segni di vitalità. Accadde a Genova, nel 1986: dopo una sconfitta in Coppa Italia, la Sampdoria mise gentilmente alla porta i cronisti. Un paio di settimane più tardi, dopo un incontro casalingo con il Como, i giocatori si presentarono in sala stampa per rispondere alle domande dei giornalisti. I quali, però, fecero marameo e se ne tornarono in redazione.
Eccoci allora giunti al termine di questo rapido viaggio alla scoperta delle urla del silenzio. Nell’attesa (che si preannuncia vana) di poter registrare lo sciopero della parola di Costantino Rozzi, vogliamo tranquillizzare chi dice che «i calciatori dovrebbero parlare solo con i piedi». Molti di loro lo fanno già da tempo.
Marco Montanari
Claudio Gentile e i Ricordi Mundial
Muti alla Meta
Italia ‘82: ovvero, quando il silenzio (stampa) è d’oro. O iridato, che nel caso di specie è ancora meglio. Investiti da un uragano di critiche e invettive, al centro di un tormentone di stampa che durava ormai da settimane, i ventidue di Bearzot, nel pieno del Mondiale spagnolo, adottarono la storica decisione.
È il 25 giugno, un venerdì: la squadra si è appena trasferita a Barcellona, dopo aver superato la prima fase grazie al pareggio con il Camerun. La attende un girone di ferro con Argentina e Brasile: indignati dalle «deformazioni che subiscono le loro dichiarazioni» (questa la versione ufficiale), proclamano di tenere d’ora in poi la bocca chiusa. Unico delegato a parlare con i cronisti (una cinquantina, tutti o quasi letteralmente assatanati), il “monumento” Dino Zoff.
La notizia cala come una mannaia sugli inviati: d’ora in poi riempire i giornali sarà un po’ meno facile. «La situazione era diventata intollerabile» ricorda Claudio Gentile, leggendario pilastro difensivo della squadra. «A determinarla erano stati in particolare gli articoli sulla questione-premi e quelli con pesanti e ridicole illazioni personali: una per tutte, quella sull’amicizia tra Cabrini e Rossi, una trovata talmente assurda che ci convinse a dire basta. Era evidentemente un caso estremo: non potevamo più sopportare senza reagire questo attacco continuo alla squadra, che solo marginalmente era di carattere tecnico e invece toccava direttamente questioni personali».
Quel silenzio durò esattamente sedici giorni: si infranse magicamente l’11 luglio, sugli scogli dorati del titolo mondiale conquistato in finale contro la Germania. Per qualche spirito un po’ superficiale, l’equazione divenne quasi automatica: silenzio uguale vittoria. «Non è il caso di essere così categorici» commenta Gentile. «Forse per vincere una manifestazione come quella, con avversari come Argentina, Brasile, Polonia e Germania, occorreva qualche piccola… dote tecnica che forse non ci faceva difetto».
Cosa pensare allora dei silenzi-stampa di oggi: è per lo meno irriverente accostarli al vostro? «Si tratta di cose diverse: i silenzi-stampa di oggi nascono non da questioni personali, ma da situazioni particolari, di carattere per lo più tecnico. A mio parere si tratta di una iniziativa che può avere una utilità: a volte può infatti servire per caricare l’ambiente, per “nascondere” la squadra e aiutarla a trovare la giusta concentrazione alla vigilia di un appuntamento importante».
Insomma, silenzio-stampa promosso a pieni voti. «Assolutamente no. Va infatti considerato che il tifoso è il primo penalizzato da questa situazione, in quanto tiene a sapere cosa pensano i protagonisti e qual è il loro stato d’animo. Dunque il silenzio-stampa si può anche fare, ma a due condizioni: che ci si trovi in casi estremi, come capitato a noi, e che abbia una durata limitata. Altrimenti si passa dalla ragione al torto, perché si mortifica un fondamentale diritto: quello della gente a essere informata».
Caso Acerbis
Il profeta Elia
È lui il capo storico del silenzio pallonaro, il depositario del verbo (si fa per dire) del black-out antistampa. Lui, Antonio Elia Acerbis, è muto da quattro anni: ha fregato tutti, è proprio il caso di dirlo, sul tempo.
Adesso che tutta la Lazio tace, ha perso, in qualche modo, la propria originalità, ma nessuno potrà mai privarlo del marchio che ha avuto il torto di non depositare e che ormai è inflazionatissimo. Non è ovviamente lui a raccontarlo, ma gli annali riferiscono che tutto cominciò a Varese. Virgolettati che non gli appartenevano, ma a quei tempi Acerbis era davvero acerbo: diciassette anni. E allora decise di far finta di niente.
Nell’81-82, a Bari, il fattaccio si ripeté. Stavolta, non più tanto acerbo, andò su tutte le furie e decise di piantare baracca e burattini. Altra squadra, il Pescara, altra corsa, la Lazio. E a Roma l’ufficializzazione del silenzio, il 30 giugno del 1986 quando, all’Acqua Acetosa per le visite mediche, Antonio Elia parlò per l’ultima volta.
Disse più o meno: «Non ce l’ho con i giornalisti, per carità. Però ho avuto problemi con la stampa, in passato. E poi non mi piace l’idea di finire sui giornali soltanto perché do quattro calci a un pallone. Così ho deciso di parlare unicamente quando cambio squadra: il giorno della presentazione, per correttezza verso la società».
Francesca Sanipoli
Qui Milano
Buon… Giorno
Il silenzio-stampa, largamente diffuso nel calcio di oggi, è una forma di protesta. Purtroppo ormai simili iniziative hanno preso i connotati di trovate d’avanspettacolo.
Nel caso de Il Giorno, le cose andarono un po’ diversamente. Infastidito da una serie di articoli ritenuti prevenuti, il Milan mostrò il suo disappunto con una doppia iniziativa: prima vietando a uno dei cronisti della nostra redazione l’accesso al villaggio dove si allenava la squadra e poi, a completamento dell’opera. il provvedimento venne esteso all’intero corpo redazionale. L’ukase ebbe la durata di qualche mese, durante i quali ai giornalisti de Il Giorno venne solo concesso di interpellare telefonicamente giocatori e tecnici del Milan.
Passato quel periodo, la società rossonera decise di ripristinare i rapporti originari, senza aver mai mosso neppure un rilievo specifico. Due le sensazioni nette a margine di questa vicenda. Una personale di chi scrive: triste il momento in cui ti impediscono di svolgere il tuo lavoro, soprattutto se sei convinto di averlo fatto secondo coscienza. La seconda, invece, di ordine più generale.
L’aspetto più incredibile dell’affaire aveva investito paradossalmente proprio l’area di dominio del cavalier Berlusconi: la comunicazione. In quei mesi di non-rapporto tra il Milan e Il Giorno, il quotidiano milanese fu costretto, e per chi conosce i meccanismi dell’informazione “costretto” è la parola esatta, a non attribuire alle vicende rossonere quello spazio giornalistico che avrebbero meritato.
Questo perché gli strumenti per offrire al pubblico un prodotto dignitoso non erano più a nostra disposizione. Immaginiamo la sofferenza in quel periodo di Silvio Berlusconi, re dell’immagine e della comunicazione, così come conosciamo le difficoltà de Il Giorno nell’affrontare l’argomento Milan. Il vero sconfitto in quella vicenda, è amaro constatarlo, fu proprio il lettore, che si vide privato di un sacrosanto diritto: un’informazione completa.
Michele Fusco (Il Giorno)
Qui Roma
Laziosità
Ormai sono più di due mesi che la Lazio non parla. E successo tutto nella settimana che ha preceduto il derby con la Roma. La chiusura, in un primo momento, è stata parziale. Il tecnico Materazzi e due giocatori, Piscedda e Pin, scelti dalla squadra, erano incaricati di tenere i contatti con la stampa.
La settimana successiva il black-out è diventato totale. Questione di mode o di scelte (in Via Margutta, ovviamente, sono per la seconda tesi), fatto sta che la Lazio da allora ha cominciato a scivolare a testa in giù. La Lazio è ormai prigioniera delle sue scelte. Difficile tornare indietro, ma è anche difficile andare avanti.
Al campo d’allenamento i giocatori quasi non parlano più nemmeno tra di loro per evitare che il cronista, vigile e attento, possa carpire anche un innocente «Dove andiamo a cena questa sera?». Sfilano alla maniera delle tre scimmiette: non vedono, non sentono e, soprattutto, non parlano. Eppure vorrebbero. Ma la guerra ai giornali, che ora si è ristretta a due quotidiani politici (Il Tempo e Il Messaggero, ai quali sono state sbarrate le porte del Maestrelli), non trova tutti d’accordo.
In questi due mesi noi “poveri” cronisti al seguito dei biancazzurri abbiamo lavorato lo stesso. Scoprendo, tra l’altro, che i pezzi affidati alla fantasia sono quelli che riescono meglio e che spesso e volentieri colpiscono il bersaglio senza possibilità di replica. In fondo ci sono sempre le statistiche, l’attualità e, nel caso della Lazio, non mancano davvero i problemi né gli argomenti da trattare. Si lavora meno e meglio.
La “defezione”, per quello che riguarda il campo di allenamento, poi, non sarà stata avvertita dai giocatori ma a maggior ragione da noi, finalmente al riparo da freddo, sole, vento, caldo e sbadigli. E comunque una situazione molto buffa. Qualcuno, per paura di rompere il silenzio stampa, non saluta neppure.
Ma c’è anche chi i rapporti continua a tenerli lo stesso, magari con qualche telefonata clandestina, tanto perché i giornali si ricordino di lui. In fondo tra poco si apre il mercato… Per noi è stato un sollievo chiudere il taccuino di fronte a certe dichiarazioni, ma per i giocatori il blackout è diventata un’autentica punizione.
Antonella Pirrottina (Il Tempo)
Qui Napoli
Via Libera alla Fantasia
Carnevale morirebbe dalla voglia di parlare. I suoi sorrisi valgono mille scuse, «non posso». Ha avuto sempre un rapporto molto buono con i giornalisti, è un ottimo collaboratore. Buongiorno e buonasera, aboliti persino gli interrogativi più banali. Un accordo tacito. mai discusso. Il silenzio-stampa migliora in genere la qualità della vita.
A Napoli va decisamente meglio da quando Maradona e compagni hanno deciso d’interrompere il bla-bla-bla quotidiano con i giornalisti. Non ho notizie di colleghi mancati suicidi, i ricoveri negli ospedali non hanno superato il livello di guardia, non è aumentato il traffico negli studi degli psicanalisti. Si vive decisamente meglio, e non sei costretto a impegnarti anche nel lavoro di traduttore. Il black-out, penso io, contribuisce ad arricchire la fantasia del giornalista, ne stimola la creatività.
Quindi: spunti gustosi, servizi costruiti e articolati attraverso particolari che altrimenti non verrebbero colti. I silenziosi del Napoli hanno scoperto che giornalisti e giornali possono vivere senza essere schiavi dei due punti e virgolette. Problemi? Nessuno. O meglio, qualcuno: nel dopopartita, spesso non è un bel lavorare: sfoghi e dichiarazioni, precisazioni e ricostruzioni in diretta in questi casi sarebbero fondamentali. Soprattutto a beneficio del lettore.
Franco Esposito (Il Mattino)