Gianluca Vialli
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L’amico geniale
“Al termine di una lunga e difficoltosa ‘trattativa’ con il mio meraviglioso team di oncologi, ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L’obiettivo è quello di utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia, in modo da essere in grado al più presto di affrontare nuove avventure e condividerle con tutti voi. Un abbraccio”.
Gianluca Vialli, capo delegazione degli Azzurri
Invecchiando, il metabolismo rallenta. Dev’essere per questo che ho avuto bisogno di qualche ora in più per digerire una notizia indigeribile: il tumore di Vialli è tornato aggressivo.
Ho perso un padre, un fratello e un amico, per colpa di quella bestiaccia, quindi conosco il problema. So anche che Luca non è il solo a doverci fare i conti, ma – egoisticamente parlando – quando le bombe ti cadono vicino fanno più rumore.
Chi è stato il Vialli calciatore, ve lo fate spiegare da quelli più bravi di me o da wikipedia. Perché il Vialli calciatore, credetemi, impallidisce di fronte al Vialli uomo, che invece vi racconto volentieri pur non frequentandolo da parecchio (troppo) tempo.
Il gioco della maglia
La prima volta che lo incrociai, era la primavera del 1984. Lui aveva 21 anni, io 25; lui giocava nella Cremonese e nell’Under 21, io lavoravo al Guerin Sportivo.
In quei giorni, si parlava parecchio di lui: la Juventus e la Sampdoria gli avevano messo gli occhi addosso. Io ero entrato in sintonia con Luca seguendo gli azzurrini di Azeglio Vicini, quindi il direttore dell’epoca (Adalberto Bortolotti) mi chiese di andare a Cremona per realizzare un servizio “guerinesco”.
Appuntamento allo “Zini”, lo stadio che servì pure da set fotografico: Carlo Fumagalli, forse il miglior fotografo di cronaca ch’io abbia mai frequentato, si presentò con due maglie, una bianconera e una blucerchiata, e Luca si prestò volentieri al gioco.
Per farvi capire l’aria che si respirava all’epoca nel calcio italiano, vi ricordo chi erano i tre presidenti protagonisti della contesa: Domenico Luzzara, un Signore come purtroppo non ne esistono più, che ebbe la forza e l’ironia di organizzare una “Festa di spromozione” (io c’ero, con Marino Bartoletti) dopo che i grigiorossi erano stati beffati nella corsa alla Serie A; Paolo Mantovani, un sognatore, un Mecenate che ha speso tonnellate di miliardi senza sprecare una sola lira; terzo fra cotanto senno, Giampiero Boniperti, che se mi metto a raccontarvelo non basta lo spazio sul disco del server.
L’anima al Diavolo? Mai!
Insomma, era davvero un grande calcio fatto di grandi personaggi, ma – nell’imbarazzo della scelta – Luca aveva già deciso: il progetto-Sampdoria gli calzava a pennello (e lui è sempre stato “fashion”…).
La nuova divisa gli andava talmente bene che un paio d’anni mi toccò telefonargli una domenica sera su invito di… mio padre. I fatti: maggio 1986, la Nazionale – Campione del Mondo in carica – deve giocare i Mondiali in Messico, così le trattative relative agli azzurri devono chiudersi prima del volo transoceanico.
Berlusconi vuole costruire un Grande Milan e fa un’offerta a Mantovani per Vialli; il presidente blucerchiato gli risponde che se al ragazzo va bene, l’affare è fatto; il “ragazzo”, Luca, ringrazia per l’interessamento e dice di no.
È per questo che mio padre, dirigente del Milan, mi chiama in redazione: «Marco, il tuo amico Vialli ha rifiutato un’offerta pazzesca del Milan. Dal momento che è un ragazzo intelligente, credo abbia detto di no perché vuole andare alla Juve: gli dai un colpo di telefono per verificare?».
Al di là della richiesta paterna, c’era un aspetto giornalistico non sottovalutabile. All’epoca, niente uffici stampa “ingombranti”, niente telefonini e niente social network. La differenza la fanno le persone, il contatto diretto.
Lo chiamo a casa, a Cremona. E lui: «No, Milano non mi piace, non c’è il mare». «Luca, smettila di fare il cretino: sei d’accordo con la Juventus?». A quel punto si fa serio, forse per la prima volta da quando lo conosco: «Il mio Milan, o la mia Juventus, si chiama Sampdoria. È qui che scriveremo una pagina bellissima della storia del calcio italiano». Capito chi era (è) Vialli?
Silenzio, stampa!
Intervistarlo (anche per uno come me, che non ha mai amato le interviste) era uno spasso, ma pure complicato. Uno spasso perché ti offriva sempre uno spunto divertente e intelligente; complicato perché ogni tanto, al termine del colloquio, ti guardava negli occhi e ti spiazzava con un «io però queste cose non te le ho dette» che non potevi deludere.
Come sul finire degli anni Ottanta, quando Luca non rilasciava interviste perché si sentiva vittima di una congiura. Fra i… congiurati, Vladimiro Caminiti, vate juventino che non perdonava a Vialli (e a Mancini, ça va sans dire) la volontà di continuare a giocare a Genova invece di cimentarsi in una Grande (segnatamente, la Juventus…).
Camin non era il solo a criticare, ma agli occhi di Luca aveva un’aggravante: oltre a essere inviato di Tuttosport, era il più popolare dei “rubrichieri” del Guerino. Marino Bartoletti, il mio direttore dell’epoca, decise di mandarmi in riviera per rompere questo silenzio che – fatto da Luca – pareva una sciocca forzatura.
Lo chiamai, fissai l’appuntamento e partii per Nervi. Trofie al pesto, gamberoni e altro ben di Dio composero il nostro menù: e fra una battuta di Salsano, una presa in giro a Pari (primo “collaboratore” della premiata ditta Mancini&Vialli) e un intervento (inevitabile) di Mancini, l’intervista si sviluppò al meglio.
Dopo un paio d’ore, assieme al caffè arrivò la doccia fredda: «Marco, io sono in silenzio stampa. Mi dispiace ma non posso fare favoritismi, quindi ti prego di salutarmi Marino e non scrivere una riga». Le righe le scrissi ugualmente, ma non usai un solo virgolettato.
Quando sciò con Wojtila…
O ancora, quando andai al Ciocco per raccontare la nascita di quella squadra che poi avrebbe vinto lo scudetto. Chiacchierata con Boskov, poi sotto con i ragazzi. Mentre mi intrattengo nel salone con Mancini, arriva lui alle spalle: «Mancio, gli hai detto che questo è l’anno giusto perché abbiamo anche la benedizione del Papa?».
Era talmente grossa che me la feci raccontare: «Che cosa c’entra il Papa?». Luca entrò nei dettagli: «In marzo eravamo a sciare, a un certo punto ci si avvicina una persona anziana con una tuta completamente bianca. Si toglie il passamontagna e restiamo di stucco: è Wojtyla! “Ragazzi, vi ho visto sciare e siete bravissimi. Adesso dovete vincere lo scudetto…”».
Che sinceramente, conoscendo la propensione allo sport del Papa polacco ammetto di averci creduto per un nanosecondo, prima che Mancini rimettesse le cose a posto: «Dai, Luca, smettila di fare il deficiente…».
Tromba di culo
Non lo frequento da parecchio (troppo) tempo, ma non dimenticherò mai un ultimo aneddoto. Lui, nato ala (“alla Domenghini”, non “alla Causio”), con il passare del tempo si era trasformato in grande bomber.
Alla domanda «Luca, Gigi Riva è passato alla storia come “rombo di tuono”. Come ti piacerebbe essere ricordato, in futuro?». E lui, fingendo di aver ponderato la risposta: «Se Riva è “rombo di tuono”, io al massimo posso aspirare a essere “tromba di culo”».
Ecco, è (anche) per questo che ho avuto bisogno di qualche ora in più per metabolizzare il comunicato rilasciato oggi da Luca. “Tromba di culo”, sappi che ti sono vicino. Non alle tue spalle, sai com’è…