Anche i ricchi piangono
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Era la fine degli anni Settanta, l’inizio degli Ottanta. Il mondo, avviato a sua insaputa verso l’obbrobrio attuale, scoprì il fascino indiscreto delle serie televisive provenienti dal sud-centro-nord America. Dallas e Dynasty, orgia di potere, soldi e sesso “in famiglia” (la stessa donna che sposa padre e figlio: quando si dice “voglio farmi una famiglia”…), ma pure le telenovelas, provenienti da Brasile e Messico. Il titolo di una di queste, “Anche i ricchi piangono”, veniva utilizzata per perculare – in ambito calcistico – la caduta di una Grande sul campo di una provinciale.
Era la fine degli anni Settanta, l’inizio degli Ottanta. Il calcio italiano si apprestava a vivere il più straordinario dei suoi periodi. Il nostro campionato si preparava a ospitare le più brillanti delle stelle pallonare. Detti alla rinfusa, Platini, Falcao, Maradona, Zico, Rummenigge, apripista per i Van Basten, Careca e Ronaldo (quello vero, quello “genuino”, quello con i dentoni che non frequentava chirurghi estetici…).
Era in arrivo il trionfo a Spagna 82, la resurrezione di Rossi voluta da quel vecchio cocciuto di Bearzot che per aspettare Pablito trascurò il superbomber Pruzzo (e per questo venne crocifisso dalla stampa capitolina, perché la Maggica non poteva essere trattata così).
In Italia, che vincesse o meno, comandava la Juventus. “I ricchi” per antonomasia, appunto. Proprietà affidata alla Famiglia più potente d’Italia, gli Agnelli, che tramite il più Agnelli di tutti, l’Avvocato Gianni, incarnazione del capitalismo più spinto che alla sua morte sarebbe stato salutato con le lacrime da milioni di operai (vallo a spiegare, se ci riesci, il rapporto tra sfruttati e sfruttatori…). E l’Avvocato aveva messo il gioco di famiglia nelle mani di un uomo che di cognome non faceva Agnelli, ma era più Agnelli – per esempio – del dottor Umberto: Giampiero Boniperti.
Non risultava simpatico agli avversari, Boniperti, però non c’era un “nemico” che non lo stimasse, che non gli riconoscesse doti non solo manageriali superiori alla media. Era potente, ma non arrogante. Lasciava lo stadio al termine del primo tempo: il secondo tempo lo seguiva per radio, in auto, girovagando in attesa del novantesimo. Boniperti era la Juventus, la Juventus era Boniperti.
Poi, quando gli anni Novanta bussavano alla porta, la Famiglia (Umberto Agnelli: si può scrivere?) decise di contrastare l’emergente Milan di Berlusconi (che in Boniperti aveva trovato il modello da superare: si può scrivere?) decise di gestire la Juve in maniera più diretta, affidandola al rampante Luca Cordero di Montezemolo. Boniperti si dimise e andò a fare l’ambasciatore della Federcalcio, salvo essere richiamato l’anno dopo per sistemare i danni della rivoluzione montezemoliana. Un altro “addio” nel 1994, salvo essere rispolverato nel 2006 – all’indomani dello scandalo che costò alla Juve la retrocessione in B – per sovraintendere alla ricostruzione.
Oggi Boniperti non c’è più. E improvvisamente scopriamo che non c’è più nemmeno la Juventus. Cacciata dalla Champions già nella prima fase, lei che – spinta dal giovane Agnelli presidente di turno – era stata la capofila della Superlega; indagata in Tribunale per una gestione che ha suscitato l’interesse delle Fiamme Gialle e le pernacchie della tifoseria; sbeffeggiata in campionato dal simpatico Monza di Berlusconi (sì, lui c’è ancora). Una squadra che sembra allo sbando, una società sicuramente alla deriva. Perché non basta chiamarsi Juventus per vincere.
Perché non basta chiamarsi Agnelli per essere un “padrone” illuminato. Perché forse è meglio avere accanto un Boniperti (così, a caso) piuttosto che un Nedved (idem). Perché non basta essere una Signora per interpretare Mariana Villareal. Perché Verónica Castro era molto più gnocca di questa Juve. Perché, in definitiva, anche i ricchi piangono, se Dio vuole. Soprattutto perché sembra di essere tornati magicamente a quel 3 agosto 1958, quando il presidente del Coni, Giulio Onesti, definì i presidenti dei club di Serie A «ricchi scemi»…