27 novembre: compleanno Roberto Mancini
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Un tacco di classe
«Mi sono divertito a Bologna, in mezzo a gente allegra e spensierata ma seria. A Genova, in una città aristocratica, un po’ chiusa, ma che sa essere riconoscente con chi la vive con onestà e rigore. A Roma, dove sono andato a lavorare divertendomi: città che ti mette sotto pressione, ma ti trasmette entusiasmo ed energia e ti sa apprezzare»: parole e musica di Roberto Mancini, direttamente dal suo sito internet.
Come dire che il primo amore non si scorda mai, neppure il secondo e financo il terzo. E questo limitandoci alla carriera di calciatore, perché sono sicuro che Roberto conserva in cuor suo ottimi ricordi pure di Firenze, Milano, Manchester e addirittura Istanbul.
Il debutto sul… Guerino
Adesso, alla vigilia del suo cinquantesimo compleanno, fa ancora più tenerezza il ricordo del primo Mancini, il diciassettenne catapultato in Serie A nel 1981 da Tarcisio Burgnich in un Bologna che, nonostante le sue prodezze, finì mestamente in B per la prima volta.
Roberto non aveva ancora la patente di guida, ma era già un personaggio da copertina. All’inizio degli anni Ottanta, il Guerin Sportivo era tornato a volare e il suo (ri)costruttore, Italo Cucci, decise che una rivista (ri)emergente dovesse tenere a battesimo tutti i campioncini in sboccio del nostro calcio.
La rubrica, “I Giovani Leoni si raccontano”, fu affidata al sottoscritto. Beppe Bergomi, Beppe Galderisi, Massimo Mauro e tanti altri finirono sulle nostre pagine con servizi da loro stessi firmati (con tanto di dedica autografa per i lettori) e da me raccolti.
Beh, dai, raccolti: in molti casi, vista la timidezza dei protagonisti, in quegli articoli c’era più farina del mio sacco che del loro. Ma era quasi inevitabile: il loro mestiere era dare calci a un pallone, il mio raccontare storie. Il più timido in assoluto – oggi lo posso dire – era proprio Roberto Mancini.
Lo incontrai in quella che da quattro anni era la sua casa, il centro tecnico di Casteldebole: quasi si stupì che una rivista importante come il Guerino si interessasse a lui, che stava muovendo i primi passi nel mondo del pallone. Chiacchierata ardua, ma alla fine – utilizzando il forcipe – qualcosa riuscii a strappargli.
Dopodiché, mentre lui andava in centro a Bologna assieme al fotografo (Renzo Diamanti, “il rosso”) per un servizio che lo avrebbe ritratto assieme alla fidanzatina dell’epoca (una commessa di Raphael in Via San Gervasio, se ricordo bene), io tornai in redazione a scrivere.
Sono stato io?
Testo fatto, diapositive sviluppate, impaginazione realizzata, ok del direttore e il numero contenente il Mancinipensiero poteva andare in edicola. Lui, naturalmente, fu tra i primi ad acquistare il Guerino e quel mercoledì mattina – forse marinando la scuola – mi telefonò immediatamente.
«Scusa, Marco, ma siamo sicuri che io ti abbia detto tutte quelle cose?». Ovvio che non me le avesse dette: le avevo intuite, interpretate. «Ho scritto qualcosa di sbagliato?». «Assolutamente no, tutto esatto. Volevo solo ringraziarti perché mi hai fatto fare bella figura. Sembro uno “vero”, leggendo quell’articolo».
Vero, senza virgolette, Roberto lo era e lo è ancora oggi. Un ragazzo d’oro, un calciatore sopraffino, un tecnico di successo, un amico premuroso. Procediamo con ordine. Che sia un ragazzo (pardòn: un uomo, a cinquantotto anni bisogna calibrare i termini) d’oro lo testimonia la sua vita e non vogliamo entrare inutilmente nel merito.
Per testimoniare del calciatore sopraffino, basta averlo visto giocare almeno una volta, possibilmente non in Nazionale perché stranamente non ha mai avuto un buon feeling con la maglia azzurra. Roberto era il punto d’incontro tra il sublime rifinitore e l’implacabile bomber. Ha segnato tanto, in carriera, ma altrettanto ha fatto segnare.
Nel suo repertorio, le stigmate del fuoriclasse, ovvero la capacità di far sembrare facili le azioni più complicate. Avete presente quei “golletti” realizzati fulminando i portieri avversari con autentiche stilettate di tacco? Ancora oggi ci sono centravanti che rischiano la rottura del crociato, per provare qualcosa del genere: lui no, passava di lì con nonchalance, non guardava niente e nessuno, ma la palla finiva nel sacco.
Amici miei
Sul tecnico di successo, andatevi a leggere il curriculum. Al vantaggio di essere cresciuto alla scuola di Boskov ed Eriksson, due maestri di vita prima ancora che di tattica, Roberto ha aggiunto l’indubbia capacità di scegliere i propri presidenti, oltre che i giocatori da mettere in campo.
Tutti hanno capito che il Mancini allenatore andava assecondato e non gli hanno mai negato niente. A parte il turco, che a quanto pare non gli ha pagato alcune rate dell’ingaggio, ma questo è un altro discorso… Infine, un amico premuroso. Perché se hai più di cinquant’anni, sei stato un campione e sei un tecnico fra i più valutati al mondo, il rischio di tirartela è dietro l’angolo.
La regola non vale per Roberto, come possono testimoniare i suoi compagni di svago del Circolo Tennis alle porte di Bologna. Un set con Giovanni, una partita a paddle con il Moro, una briscola e tressette con Doddo, Bullo e Grillo, una risata con tutti e per tutti.
Macché silenzio stampa…
Con il passare degli anni, intervistare Mancini diventò una piacevole consuetudine: tra lui e il Guerin Sportivo si era instaurato un rapporto talmente stretto che con noi non valeva neanche il concetto di silenzio stampa. Fu con lui – e il suo sodale Vialli, ça va sans dire – che organizzammo il meraviglioso servizio di copertina che comprendeva pure Cerezo, tutti vestiti da Re Magi per augurare buon anno ai nostri lettori.
Una telefonata, l’appuntamento alla Ruota di Nervi e il gioco era fatto: quasi non c’era bisogno di prendere appunti, l’articolo si… scriveva da solo. E tante sono le cose non scritte perché era inutile farlo.
Come quella volta (ricordi, Mancio?) che stavamo pranzando assieme a Pari, Salsano, Vialli e Vierchowod. Pioveva a dirotto, era il venerdì che precedeva un match importante al Ferraris. A un certo punto, arrivò un dirigente blucerchiato e ti disse che se volevi andare “là” dovevi sbrigarti, perché poi Boskov vi voleva in albergo a una certa ora.
Ti alzasti, salutasti. Io, trangugiando l’ultima trenetta, ti chiesi dove stavi andando. Facesti spallucce, sorridesti e te ne andasti con Ghirardi. A rispondere alla mia domanda provvidero i tuoi divertiti compagni di squadra.
Mi dissero che avevi un appuntamento a La Spezia, che il presidente ne era al corrente ma non voleva che tu guidassi sotto il diluvio e ti aveva affidato a un angelo custode travestito da autista.
Che ti avrebbe accompagnato a destinazione, ti avrebbe atteso e quindi riportato a Genova, dal tuo allenatore. Perché Roberto – fin da ragazzo – ha sempre avuto due grandi passioni. E il pallone (adesso, forse, si può dire) forse era la seconda…
Buffet in piedi
Ci eravamo persi di vista per un po’ di tempo, ci rivedemmo nell’ottobre 2009 per il centenario del Bologna. Incrociandolo al banco del buffet, gli dissi di favorire tranquillamente: avrei offerto io, dal momento che lui era senza contratto (ma ancora legato a Moratti…).
Mi guardò, sorrise, magari avrebbe voluto mandarmi a quel paese, invece simpaticamente rispose: «Grazie, Marco, ne approfitto perché tengo famiglia ed è dura arrivare a fine mese».
Poco dopo, arrivarono la chiamata dello Sceicco del Manchester City e il titolo di Campione della Premier League. Cento di “quei” giorni, Mancio: li meriti davvero tutti.